Contratto psicologico: oltre lo stipendio
Puoi ascoltare questo articolo nel Podcast Fiorire Il contratto psicologico è l’insieme di credenze, obblighi, aspettative emotive, sociali e comportamentali che nascono nella mente del lavoratore e del datore di lavoro e che precedono, accompagnano e seguono un contratto formale, costruendo una serie di aspettative, di regole non scritte, che il lavoratore ha nei confronti della propria azienda ed allo stesso tempo l’azienda ha nei confronti del lavoratore. Il contratto psicologico riguarda la fiducia, il rispetto, lo sviluppo professionale, la sicurezza lavorativa e la percezione di equità. Perché è importante il contratto psicologico? E’ una componente necessaria in qualsiasi relazione, anche in quella lavorativa: se io mi identifico nei valori della mia azienda e provo un senso di appartenenza, è più probabile che metta in atto comportamenti organizzativi positivi, che mi impegni di più. Quando iniziamo un nuovo lavoro firmiamo un accordo scritto, il contratto giuridico, che definisce nero su bianco i diritti e i doveri delle parti e stabilisce una serie di norme a cui il datore di lavoro da una parte e noi come lavoratori dall’altra dobbiamo attenerci. Contemporaneamente, firmiamo un accordo mentale non scritto tra noi e il datore di lavoro, appunto il contratto psicologico, che ha una natura più fluida e si evolve nel tempo in relazione ai cambiamenti sociali e culturali. Ma perché creiamo mentalmente questo contratto psicologico, molto spesso anche inconsapevolmente? Perché ci aiuta a ridurre l’incertezza e ci dà l’impressione di riuscire ad influenzare il nostro destino all’interno dell’organizzazione. Alcune aspettative che possiamo avere nei confronti dell’azienda possono essere la possibilità di crescere professionalmente e quindi magari poter usufruire di corsi di aggiornamento, oppure la giustizia nelle procedure di selezione e promozione, la qualità delle relazioni con in superiori e i colleghi, la motivazione professionale. Le aspettative dell’azienda invece possono riguardare la puntualità, la lealtà e onestà o l’aderenza ai valori aziendali. Ovviamente ce ne possono essere tante altre e possono cambiare nel tempo perché la relazione tra lavoratore e azienda potrebbe cambiare nel tempo, così come avviene con le relazioni interpersonali. A differenza del contratto formale, giuridico, che è scritto nero su bianco e si basa su diritti e doveri e include l’orario di lavoro, le mansioni e lo stipendio, il contratto psicologico è soggettivo e coinvolge aspetti legati alla sfera emotiva del lavoratore, come la fiducia nella propria organizzazione e il senso di appartenenza. Per comprenderlo meglio, possiamo immaginare il contratto attraverso l’immagine dell’ iceberg, la parte visibile, quella sopra l’acqua è il contratto giuridico, quello che firmiamo, la parte non visibile, quella che sta sott’acqua è il contratto psicologico, con le nostre aspettative riguardo al tempo personale, alla nostra competenza, agli sforzi, alla crescita professionale, aspettandoci in cambio da parte dell’organizzazione promozioni, attività di equilibrio vita-lavoro, flessibilità, benefit, ambienti di lavoro adeguati, formazione, il riconoscimento e così via. Quando percepiamo correttezza, equità, giustizia e lealtà allora proviamo una sensazione di soddisfazione che influisce positivamente sul nostro comportamento lavorativo e l’impegno, e di conseguenza può migliorare la qualità del lavoro, la produttività, potenziare le abilità, progettare e realizzare cambiamenti, migliorare i servizi al cliente e aiutare i dipendenti a bilanciare vita e lavoro. Quando, però, percepiamo che l’azienda (con azienda mi riferisco al datore di lavoro o i colleghi che creano la cultura e il clima organizzativo in cui lavoriamo), non adempie ai propri obblighi o promesse, vi è la violazione del contratto psicologico ovvero iniziamo a percepire emozioni di delusione, rabbia, tradimento, angoscia, sfiducia a causa della mancanza di risultati attesi, e in alcuni casi può portare anche a disturbi fisici come tensione, ansia, insonnia, depressione, burnout e rigidità dei muscoli e delle articolazioni. Quando proviamo insoddisfazione lavorativa a seguito della violazione del contratto psicologico, o diamo le dimissioni e usciamo definitivamente dall’organizzazione, o cerchiamo di risolvere il problema attraverso il dialogo, oppure affrontiamo la situazione in modo passivo facendo assenze, ritardi e maggiori errori sul lavoro. Il tipo di risposta che adottiamo dipende dai costi che il licenziamento può avere per noi, sia a livello economico che psicologico, dalla soddisfazione percepita in precedenza alla violazione e dalle alternative lavorative che abbiamo. A livello organizzativo si nota una crescente insoddisfazione lavorativa, calo dell’impegno, assenteismo e turnover. Tutto ciò si basa sul principio di equità: più è grande la percezione di squilibrio o di discrepanza tra i contributi delle due parti, maggiore darà la percezione di rottura o violazione. Inoltre si è osservato che un dipendente rimane in un’organizzazione più a lungo quando percepisce un equilibrio tra ciò che l’organizzazione fornisce (salario, sicurezza, status, sociale) e ciò che il dipendente dà all’organizzazione (sforzo, esperienza, abilità). L’azienda deve favorire la motivazione, favore la crescita professionale del dipendente, anche attraverso nuove sfide lavorative che possano favorire lo stato di flusso. Lo stato di flusso è un altro costrutto che sta diventando sempre più importante anche nel mondo del lavoro, magari ne parleremo in un altro episodio. Personalmente, trovo il concetto del contratto psicologico estremamente interessante perché nei colloqui di valutazione del personale è una componente che emerge tantissimo, sia nel lato positivo che negativo. Fonti: Argentero, P. & Cortese, C.G. (2021) Psicologia delle risorse umane. Raffaello Cortina Editore, Milano. Atkinson, C. (2007). Trust and the psychological contract”, Employee Relations, 29, 3, pp. 227-246. Costa, S., Neves, P. (2017), “Job insecurity and work outcomes: the role of psychological contract breach and positive psychological capital”. Work & Stress, 31, 4, pp.375-394 Rousseau, D.M., (1989), “Psychological and implied contract in organizations.” Employee Rights and Responsibilities Journal, 2, pp.121-139. Sarchielli, G. (2008), Psicologia del lavoro. Il Mulino, Bologna.
Punti di forza: quali sono e come utilizzarli per vivere meglio
Puoi ascoltare questo articolo nel podcast Fiorire In psicologia, i punti di forza del carattere vengono definiti come capacità positive di pensare, sentire e comportarsi in modi che avvantaggiano sé stessi e gli altri. e come una “famiglia di caratteristiche positive ognuna delle quali esiste in gradi diversi in base alla persona”. Ma quindi si parla di talenti? Non proprio. Punti di forza sono naturali, sono già dentro ognun* di noi e riguardano il modo di essere. Le capacità o le skill sono quelle che vengono apprese attraverso l’allenamento e l’esperienza. Mentre il talento è un’abilità innata caratterizzata da una forte componente biologica. Riguarda qualcosa che sappiamo fare. Ovviamente questa distinzione serve solo a capire meglio di cosa stiamo parlando, non va presa come una verità assoluta al 100%, anche perché spesso questi aspetti si sovrappongono tra di loro. È utile tuttavia per comprendere che i punti di forza del carattere fanno parte di noi da sempre, non sono cose estranee che non potremo mai apprendere. “Si okay, ma non penso di avere punti di forza” A volte possiamo non essere a conoscenza dei nostri punti di forza. I casi possono essere due: I punti di forza del carattere sono visti come processi psicologici specifici che definiscono virtù più ampie, ovvero caratteristiche fondamentali che sono state identificate e valutate da filosofi morali e pensatori religiosi nel corso del tempo. Questa ricerca sui punti di forza ha portato due psicologi, Peterson e Seligman, a scrivere un manuale molto approfondito e dettagliato su queste 6 virtù e 24 punti di forza: Character Strengths and Virtues: A Handbook and Classification. A seguito di questi studi minuziosi, è stato sviluppato un sistema di classificazione universale e interculturale dei punti di forza e virtù del carattere chiamato Value in Action Classification of Strengths e sono stati sviluppati anche degli approcci di valutazione e intervento legati ai punti di forza. Uno degli scopi principali della valutazione dei punti di forza del carattere è comprendere, identificare e sfruttare i punti di forza di ogni persona. Ad esempio, una strategia ampiamente studiata nella letteratura sulla psicologia positiva e sui punti di forza del carattere invita le persone ad usare i loro punti di forza quotidianamente in maniera diversa per una settimana. In diversi studi, dove hanno applicato questo intervento, è stato osservato un aumento della felicità e una diminuzione dei sintomi depressivi per sei mesi. L’utilizzo dei propri punti di forza in maniera continuativa consente un “funzionamento ottimale”, il flourishing, questo perché vanno ad alimentare il coinvolgimento in quello che facciamo, e il coinvolgimento è uno dei fattori che troviamo nella teoria del benessere PERMA di Seligman, e influenza la nostra percezione di benessere. Di conseguenza porta ad uno sviluppo personale e delle performance elevate nelle varie attività svolte. In ognuno ognuna di noi ci sono tutti questi punti di forza, ma ovviamente in misure diverse e se vuoi sapere quali sono i tuoi maggiori punti di forza c’è un test gratuito che puoi fare ed è il VIA Character Strengths. Ti invito a scriverti da qualche parte i tuoi primi 3 o 5 punti di forza, sulle note del telefono o su un foglietto, e provare ad applicarli quotidianamente, anche con azioni semplici. Ogni punto di forza della tua classifica personale è sviluppabile, anche gli ultimi possono essere allenati ed usati nella tua quotidianità. Se ti fa piacere puoi taggami in una storia instagram per condividere i tuoi punti di forza e io sarò felicissima di ricondividerti. Fonti: Gander, F., Proyer, R. T., Ruch, W., & Wyss, T. (2013). Strength-based positive interventions: Further evidence for their potential in enhancing well-being. Journal of Happiness Studies, 14, 1241–1259. Niemiec, R. M. (2013). VIA character strengths: Research and practice (the first 10 years). In H. H. Knoop & A. Delle Fave (Eds.), Well-being and cultures: Perspectives on positive psychology (pp. 11–30). New York: Springer. Park, N., & Peterson, C. (2009). Character strengths: Research and practice. Journal of College and Character, 10(4), 1–10. Park, N., Peterson, C., & Seligman, M. E. P. (2004). Strengths of character and well-being. Journal of Social and Clinical Psychology, 23, 603–619. Peterson, C., & Seligman, M. E. P. (2004). Character strengths and virtues: A classification and handbook. New York and Washington, DC: Oxford University Press and American Psychological Association. Seligman, M. E. P., Steen, T. A., Park, N., & Peterson, C. (2005). Positive psychology progress: Empirical validation of interventions. American Psychologist, 60, 410–421.
Introversione e leadership
Spesso si pensa che l’estroversione sia fondamentale nella leadership, in realtà anche gli introversi possono essere grandi leader. Questo perché le differenze nelle organizzazioni necessitano di diversi tipi leader e tratti che potrebbero essere benefici per la leadership in alcune situazioni, potrebbero non funzionare bene in altre circostanze. Ma prima di iniziare, se vuoi approfondire cosa significa essere introversi, ho scritto questo articolo che prende in considerazione le differenze tra introversi ed estroversi. La caratteristica principale delle persone introverse è che raramente diventano leader solo per il gusto di essere leader, ma perché tengono molto ad una determinata causa. Capacità dei leader introversi Sfide per un leader introverso: Consigli per essere un buon leader: Ti vengono in mente altri suggerimenti o vuoi raccontare un’esperienza personale? Ti aspetto nei commenti 🙂 Fonte: Larson, K. (2016), Introverts as Leaders: It can be done… successfully.
Journaling e scrittura di sé
Da adolescente impazzivo per i diari. Ne avevo riempiti tantissimi nel corso degli anni. Scrivevo tutto: le mie emozioni, quello che mi succedeva, i miei pensieri. Avevo il terrore che la me del futuro si sarebbe dimenticata di quegli anni, che tutti consideravano “i migliori della vita”, ma io tutta quella bellezza non la vedevo. Sentivo il bisogno di rielaborare le esperienze per comprenderle. Ma, soprattutto, avevo il bisogno di tirare fuori tutto quello che tenevo sempre dentro. E li conservo ancora, nella scatola dei ricordi. Crescendo ho accantonato la scrittura, la mia valvola di sfogo era diventata la musica. Collegavo le canzoni a determinate esperienze e suonavo per riconoscere ed esprimere le mie emozioni. Qualche anno fa scoppiò la moda del Bullet Journal e mi sembrò un ottimo modo per riprendere la mia tanto amata scrittura. Ri-iniziai a scrivere di tutto, e mi faceva stare bene. Riscoprii il piacere della scrittura e la sua potenza come strumento di consapevolezza. Purtroppo si rivelò un metodo organizzativo non adatto a me, ma decisi comunque di continuare a scrivere, tenendo separata l’agenda dal diario. Scrivere è scrittura di sé Da secoli l’essere umano sente come una pulsione inconscia di usare la penna per esaminarsi più profondamente raccontandosi a se stesso. Il gesto libero e volontario dello scrivere ti consente di fissare quei minuti che più vale la pena di trascrivere, come altrettanti momenti necessari per disegnare, a posteriori, chi sei statə e chi hai creduto di essere: perché tra le pagine traspare la tua parte più intima. L’atto della scrittura coinvolge il corpo nella sua pienezza, è attività cerebrale e corporea, il cui valore può rilevarsi catartico, liberatorio o alleviante. Scrivere con costanza in modo libero e con motivazione intrinseca, ti permette di penetrare rivelazioni profonde altrimenti non affiorabili. Scrivere ti permette non solo di riassumere e riepilogare quello che hai fatto nella e della tua esistenza, ma ti offre l’occasione di interrogarti e porti domande sulla tua vita e sul tuo esistere. Scrivendo incarnerai una duplice figura, quella di scrittore/scrittrice e lettore/lettrice ma in un corpo solo. Riuscirai ad uscire da te stessə e tornarvi per dare un significato a quelle parole che sono ricordo di una vita. “La scrittura rappresenta metaforicamente un galleggiante al quale affidarsi per non affondare.” Ti rivolgi alla scrittura per elaborare la solitudine, il dolore, la rabbia, per sentirti ascoltato/a o per testimoniare esperienze estreme. Ti rivolgi alla scrittura per ritrovare quella concentrazione, quel silenzio, quel momento meditativo che la penna sa darti per alleviare e lenire ferite dell’animo. Tutti e tutte noi nel corso della vita dobbiamo confrontarci con stress, dolori, problemi. Non si tratta di sfogare le proprie emozioni, anche perché lo sfogo senza la comprensione può portare a vivere con maggiore frustrazione quello che si sta provando. La cosa importante è dare un senso alle emozioni, e la scrittura ci può aiutare in questo. Perché a differenza del pensiero libero, la scrittura ci aiuta a dare un senso e un significato alle parole e alle esperienze. E quando la vita prende il sopravvento, dare un senso è proprio ciò di si ha bisogno. Quando riesci a dare un senso o un significato ad un determinato accadimento della tua vita, allora in quel momento sei prontə a lasciarlo andare. Perché fare journaling È stato provato che la scrittura è in grado di apportare miglioramenti sulla salute mentale e fisica. Per cui, ecco qualche semplice motivo per iniziare rendere la scrittura una nuova abitudine: Come è possibile avere questi benefici? Secondo Pennebaker l’atto di convertire emozioni e immagini in parole cambia il modo in cui la persona si organizza e pensa alle esperienze o al trauma. Inoltre, parte del disagio causato dal trauma risiede non solo negli eventi, ma anche nelle reazioni emotive della persona ad essi. Integrando pensieri e sentimenti, la persona può quindi costruire più facilmente una narrazione coerente dell’esperienza. In aggiunta, analizzando l’uso di parole di emozioni positive e negative, hanno osservato che le persone che tendevano a usare molte parole nella categoria positiva e una quantità moderata nella categoria negativa hanno avuto i maggiori miglioramenti di salute. Mentre, coloro che scrivevano molte parole della categoria negativa rischiavano di entrare in un ciclo vizioso di lamentele senza raggiungere una chiusura. Per cui, un alto tasso di uso di parole con valenza positiva, insieme ad alcune parole con valenza negativa, suggerisce che c’è un riconoscimento dei problemi con un concomitante senso di ottimismo. Come fare journaling Prima di tutto procurati un diario o un quaderno che ti piaccia anche esteticamente, può sembrare una cosa frivola, ma anche questo piccolo dettaglio sarà in grado di motivarti. Procurati una penna con la quale ti trovi bene a scrivere. La scrittura dovrà essere un’attività piacevole, quindi evita penne scariche o che fanno fatica a scrivere. Trovati uno spazio e un tempo dove non verrai disturbato/a. Inizialmente sarà difficile gestire l’emozione davanti alla pagina bianca, ma vedrai che si tratta di abitudine: passo dopo passo diventerà più semplice e motivante. Abbi pazienza e fiducia nel processo. Non fissarti sulla grammatica o sulla forma. Scrivi come viene, senza pensarci troppo. Come stai in questo momento, cosa vorresti fare durante la giornata, un sogno particolare che hai fatto. Se l’idea di scrivere solo parole ti blocca, prova ad esprimerti in altri modi ad esempio con disegni, colori, forme, collage ecc… Per instaurare l’abitudine devi fare in modo che sia piacevole e semplice da attuare. Fai in modo che il quaderno e la penna siano in un posto facile da raggiungere, per cui non metterli nel cassetto. Non è fondamentale scrivere tutti i giorni, ad esempio puoi decidere di scrivere 3 o 2 giorni alla settimana subito dopo colazione o alle 22 prima di andare a dormire. Anzi, sarebbe meglio non sforzarsi a scrivere ogni cosa tutti i giorni, altrimenti si rischia l’effetto contrario e arriverai a evitare
Creatività: cos’è, come stimolarla, emozioni e mondo del lavoro
Indice Cos’è la creatività? Creatività significa semplicemente collegare cose. Quando chiedi a persone creative come hanno fatto qualcosa, si sentono quasi in colpa perché non l’hanno fatto realmente, hanno solo visto qualcosa e, dopo un po’, tutto gli è sembrato chiaro. Questo perché sono stati capaci di collegare le esperienze vissute e sintetizzarle in nuove cose. Steve Jobs La creatività è definita nel Nuovo Dizionario di Psicologia (2018) come “carattere saliente del comportamento umano, particolarmente evidente in alcuni individui capaci di riconoscere, tra pensieri e oggetti, nuove connessioni che portano a innovazioni e a cambiamenti. Il criterio dell’originalità, presente in ogni attività creativa, non è un criterio sufficiente se è disgiunto da una legalità generale che consente all’attività creativa di essere riconosciuta da altri individui. L’accadere della creatività secondo regole è ciò che la distingue dall’arbitrarietà.” A volte la creatività viene associata alla genialità, altre volte ancora si parla di creatività nei bambini quando inventano qualcosa di nuovo giocando, colorando, scrivendo. Anche se la creatività viene chiamata in causa solo in alcuni contesti e solo per alcune categorie di persone, questa capacità l’abbiamo tutti e può essere particolarmente evidente in alcuni individui capaci di riconoscere, tra pensieri e oggetti, nuove connessioni che portano ad innovazioni e a cambiamenti. Oggi, la maggior parte dei ricercatori, concordano con la definizione di creatività di Stein del 1953, secondo la quale “La creatività richiede sia l’originalità che l’utilità” e riguarda proprio la produzione di un qualcosa di nuovo e di utile. Guilford cercò di definire la creatività in termini psicologici, individuando alcuni aspetti che la contraddistinguono: Percui, l’atto creativo non è un evento singolo, ma un processo di interazione tra elementi cognitivi ed affettivi. In questa prospettiva, l’atto creativo ha due fasi, una generativa e una esplorativa o valutativa (Finke). Durante il processo generativo, la mente creativa immagina una serie di nuovi modelli mentali come potenziali soluzioni ad un problema, nella fase esplorativa, vengono valutate le diverse opzioni e poi viene selezionata quella migliore Il punto focale, portato alla luce dagli studi, è quindi che la creatività non è una proprietà unica, ma è il risultato della complementarietà tra deduzione e intuizione, tra ragione e immaginazione, tra emozione e riflessione, tra pensiero divergente e pensiero convergente. Neuroscienze e creatività È famosa la teoria dell’asimmetria emisferica, secondo la quale la creatività è una funzione dell’emisfero destro, mentre la razionalità dell’emisfero sinistro. Tuttavia, questa teoria appare oggi troppo semplicistica. Dai vari studi neuroscientifici, sembra non esserci un accordo unanime tra i ricercatori su quali siano le precise aree cerebrali coinvolte nel processo creativo. La conclusione è che il pensiero divergente non rappresenta una modalità diversa o separata di pensare, per cui non vi è un insieme specifico di regioni cerebrali coinvolte durante tale processo, piuttosto pare produca un’attivazione ampia e diffusa (Dietrich, 2007). Gli studi recenti non sostengono una lateralizzazione emisferica per l’atto creativo, ma piuttosto credono che diverse aree cerebrali vengano attivate a seconda della natura del processo creativo in atto. Quando siamo in un processo creativo, diverse aree del cervello si attiverebbero, le stesse che si attivano anche in altri processi cognitivi quali l’attenzione, la memoria, il monitoraggio delle prestazioni. Questo ci suggerisce che la creatività è il prodotto di una complessa interazione tra processi cognitivi “quotidiani” ed emozioni (vedi successivamente). Molti studiosi sono d’accordo sul coinvolgimento della corteccia prefrontale nel processo creativo, nonostante non sia ancora chiaro quali aree e in che misura. Come stimolare la creatività Dato che possiamo vedere la creatività come un muscolo, possiamo allenarla e tenerla allenata in vari modi. Sperimenta, prova quello che più ti ispira e trova quello che funziona per te. Emozioni e creatività: come si influenzano Le emozioni possono influenzare le attività del nostro cervello e possono dunque influenzare anche il moto creativo. Mezzi creativi come la pittura, la poesia, la danza, i film e la musica evocano intense emozioni sia per gli artisti che per il pubblico, consentendoci di sperimentare e condividere un’ampia gamma di risposte emotive all’interno di un quadro sicuro. L’emozione spesso facilita l’espressione creativa e quindi è fondamentale capire come l’emozione influisce sui meccanismi neurali che danno origine alla creatività e anche per capire come l’espressione artistica creativa può modulare i sistemi neurali responsabili dell’elaborazione delle emozioni. È stato anche dimostrato che gli stati emotivi piacevoli possono stimolare la creatività, perché permettono di produrre più idee. Queste, però, non sono necessariamente più originali. Nel caso delle emozioni spiacevoli, come la tristezza, la rabbia, la malinconia o la delusione, invece, le persone riescono a produrre più idee quando il lavoro creativo è considerato interessante. In questo modo, un individuo che ha uno stato d’animo negativo, trova nel processo creativo una soluzione per tornare ad uno stato neutro o positivo. Anche gli stati emotivi negativi, dunque, influiscono sulla creatività, ma in modo diverso. Durante la fase di dolore e di tristezza, l’impulso creativo di solito è relazionato con un tipo di lavoro più specifico di produzione creativa, come la musica o la scrittura. Le emozioni spiacevoli possono aiutarti a scavare più in profondità nel problema e a trovare una soluzione che la tua parte più felice non avrebbe mai scoperto. N.B. Nonostante le emozioni siano relazionate con la creatività, il loro rapporto dipende molto dal tipo di lavoro creativo che dobbiamo svolgere. In un esperimento (McPherson, Barrett, Lopez-Gonzalez, et al.) è stato mappato il cervello (fMRI) di pianisti jazz per esaminare l’improvvisazione al pianoforte in risposta a segnali emotivi e si è notato che l’attivazione dei circuiti neurali associati alla creatività variano a seconda delle emozioni che provano. Hanno mostrato a dodici pianisti jazz professionisti fotografie di un’attrice che rappresenta un’emozione positiva, negativa o ambigua. I pianisti hanno improvvisato la musica che hanno ritenuto rappresentasse l’emozione espressa nelle fotografie. L’attività nelle reti cerebrali prefrontali e in altre reti cerebrali coinvolte nella creatività è altamente modulata dal contesto emotivo. Inoltre, l’intento emotivo modulava direttamente la connettività funzionale delle aree limbiche e paralimbiche come l’amigdala e l’insula. Questi risultati suggeriscono che emozione e creatività sono strettamente
Introversione ed estroversione
Nella nostra società c’è la convinzione che l’io ideale sia estroverso, ovvero che dovremmo essere tutti carismatici e con la tendenza all’azione. Infatti una persona estroversa viene descritta come socialmente attiva, allegra. Al contrario una persona introversa viene solitamente definita, erroneamente, timida e asociale. Essere introversi non significa essere timidi. Con il termine timidezza si indica una difficoltà ad incontrare altre persone. Si ha il timore del giudizio negativo da parte dell’altro. Introversione, invece, significa trovare soddisfazione nel proprio mondo interiore, essere più attratti dalle emozioni e dai pensieri che dai fatti, ricercare tranquillità per ricaricare le proprie energie. Il primo ad utilizzare questi termini è stato Jung nel 1921, che nel suo saggio Tipi psicologici sostiene che introversione ed estroversione fanno parte di un continuum dove ogni individuo può collocarsi. Immaginiamo un segmento dove alle estremità c’è introversione e nell’altra estroversione. Ogni persona può collocarsi in qualsiasi punto all’interno di questo spazio in base a determinate caratteristiche e la tendenza centrale viene definita ambiversione. In particolare, una persona viene definita estroversa quando è attratta dal mondo esterno, dalle persone e trae energia dalle relazioni sociali, infatti tende ad intrattenere relazioni con un numero elevato di persone. Al contrario, una persona introversa trova soddisfazione nel proprio mondo interiore, è più attratta dalle emozioni e dai pensieri che dai fatti, di conseguenza tenderà ad evitare situazioni sovrastimolanti che abbasserebbero le sue energie. Queste differenze comportamentali sono legate a differenze a livello cerebrale. Ci tengo a precisare che non esiste un tipo di personalità migliore dell’altra, ma essere a conoscenza di queste differenze può aiutare nell’autoconsapevolezza e nella comprensione degli altri. Corteccia prefrontale Una prima differenza si trova a livello della corteccia prefrontale, che è l’area del cervello responsabile di funzioni come il pensiero astratto, la pianificazione, il processo decisionale, la capacità di attenzione e la focalizzazione. Il neuroscienziato Buckner, studiando le differenze tra la struttura cerebrale degli introversi e quella degli estroversi, scoprì che gli introversi avevano una materia grigia più spessa in alcune aree della corteccia prefrontale e questo favorirebbe la loro tendenza al pensiero astratto, all’introspezione e alla pianificazione. Flusso sanguigno cerebrale Altri studiosi presero in considerazione il flusso sanguigno cerebrale per analizzare le correlazioni con introversione/estroversione. Osservarono che l’introversione era associata con un incremento del flusso sanguigno nei lobi frontali e nel talamo anteriore, collegati alla natura introspettiva e a attività cerebrali quali pensare, organizzare e ricordare. Mentre l’estroversione era correlata con un aumento del flusso sanguigno nel giro cingolato anteriore, nella corteccia insulare posteriore, nei lobi temporali e nel talamo posteriore ed evidenzia la preferenza di questi individui per stimoli emotivi e sensoriali. Dopamina Infine, è stata presa in considerazione la dopamina, importante nel sistema della ricompensa che ha il compito di spronare l’individuo verso qualsiasi potenziale fonte di soddisfazione. Molti ricercatori supportano l’ipotesi secondo cui ci sarebbe un’associazione tra il tratta della personalità e il funzionamento del sistema della dopamina. In particolare gli estroversi hanno alti livelli di sensibilità alla dopamina, che li porta a desiderarla e cercarla attraverso attività sociali, mentre gli introversi hanno livelli bassi di eccitazione corticale, che li porta a cercare tranquillità per evitare di sentirsi sopraffatti Fishman e colleghi, nel 2011 hanno sottoposto persone estroverse ed introversi alla visione di immagini di persone e oggetti registrando l’attività elettrica del loro cervello attraverso un elettroencefalogramma valutando l’attività P300. Questa attività di 300 millisecondi, si verifica quando l’individuo avverte un cambiamento improvviso nell’ambiente circostante. Attraverso questo studio hanno osservato che i cervelli degli estroversi e degli introversi rispondevano alle immagini in modo differente. I primi mostravano una maggiore reazione P300 ai volti umani. I secondi manifestavano reazioni P300 simili ai volti umani e agli oggetti. Questi risultati potrebbero spiegare perché gli estroversi danno più importanza o sono più attratti dalle persone rispetto agli introversi. Dai vari studi emerge che introversi ed estroversi si relazionano all’ambiente ed agli eventi in modo diverso a causa di differenze neuropsicologiche. Queste differenze portano gli individui ad adattarsi e rispondere agli eventi nel miglior modo possibile. Ho notato che soprattutto nelle scuole, alcuni insegnanti tendono a vedere l’alunno/a introverso come problematico, spesso viene detto “dovresti aprirti di più, sei silenzioso” che genera frustrazione, sensi di colpa e rende l’esperienza scolastica negativa. C’è ancora tanto da fare, ma iniziare a parlarne è un primo passo per aumentare la consapevolezza. E per concludere, riprendo la citazione che ho inserito all’inizio della mia tesi: La nostra cultura ha fatto della vita da estroversi l’unica virtù. A forza di scoraggiare il viaggio interiore e la ricerca di un centro, abbiamo finito per perderlo, il nostro centro. E ora dobbiamo metterci di nuovo a cercarlo. Anaïs Nin